Ciao mi chiamo Matelda Coletti.
Sono nata il 5 dicembre 1946, a Longarone. Ho dei
ricordi bellissimi della mia infanzia, in paese.
C'era tanto verde, le montagne, le giornate passavano
veloci.
Andavo a scuola, non ero una scolara modello, alla sera si
mangiava quello che c'era.
Avevo dei compiti in famiglia, perchè ero la maggiore di
quattro fratelli. Andavo a scuola.
Della diga, noi ragazzi si sapeva poco o niente. Quando
ero con le amiche del cucito, si facevano illazioni, ad
esempio "la diga non casca, o va giù anche
Belluno", ma i grandi che leggevano degli incidenti
sui giornali, erano impressionati ben più di noi.
Ero piccola, ma dal mio mondo di fiabe avevo una sola
certezza : mio padre lavorava alla Centrale di Gardone, se
ci fosse stato pericolo non ci avrebbe fatto rimanere a
Longarone a morire come topi!
Il 9 ottobre, papà faceva il turno sino alle 22, la mamma
usciva dall'albergo quando lui l'andò a prendere.
In casa c'ero io ancora alzata in cucina, Leila era nella
cameretta all'ultimo piano, dove dormivo io, Micaela e
Giancarlo erano nella camera dei genitori poichè
dormivano con loro.
Non so bene che ore fossero, ma ad un certo punto della
serata mancò la luce ed io andai in camera da Micaela e
Giancarlo per mandar via il gatto. Micaela dormiva, aveva
un pigiama rosa e grigio a righe della zia.
La camera aveva un grosso armadio tra il letto e il
comodino e nel girarmi sentii di colpo un forte vento che
tagliava tutti i vetri, poi vidi un buco enorme nel
pavimento e questa grandissima forza che mi spingeva
dentro. Una grande botta ed il mio pensiero che mi diceva
: è finita!
Poi buio completo.
Mi sono ritrovata in piedi sotto una montagna di macerie,
mentre Micaela e Giancarlo erano sotto : vicini a me.
Avevo un piede completamente bloccato dalle macerie, ma
volevo tirare fuori a tutti i costi mio fratello. Cercavo
di portarlo vicino a me.
Ricordo che Micaela era coperta di maceria, con il
pigiamino rosa a righe.
Hanno dovuto scavare con le mani da dietro e mi dicevano
"adesso ti tocchiamo le gambe", ma tra loro
dicevano "questa le gambe non le ha più". Io
muovevo il piede ed urlavo "io le gambe le ho"
ma non mi rendevo conto che muovendo il piede mi sarei
rovinata per sempre. Fui tirata fuori da quella specie di
bara e portata in barella dai militari e nell'ambulanza
non avevo più pensieri per nessuno, solo sonno e
debolezza.
Fui ricoverata a Pieve di Cadore per tre giorni, e
decisero che il piede era da tagliare.
Ma era una clinica di maternità, non avevano i mezzi. Mi
infilarono una camicia da notte e nel toglierla venne via
la pelle. La botta in testa mi causò una specie di paresi
al viso, mi operarono più volte al piede, e quella ferita
non cicatrizzava mai.
All'ospedale di Codivilla il prof. Colombazzi mi salvò il
piede ma si accorsero della ferita grave alla testa, e
della paresi al viso. Non avevo più i denti davanti, non
capivano quanti anni avessi, ero un mostro.
Noi ci salvammo, eravamo nella stessa stanza. Ci trovarono
tutti assieme, ma la cosa che più ricordo e che mai mi
perdonerò, fu che dissi a Micaela "non ti muovere,
tanto tu sei morta, aspetta che tiro fuori
Giancarlo". Sono stati anni tremendi per me. Mio
fratello era il primo maschio dopo quattro femmine, troppo
importante per me.
Svenni però dopo tanto.
Perdemmo tutto, quella
notte.
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