Tratto da: "Narcomafie" del 06/06/2002
La diga e' ancora li', come il dolore
«Dov'eri l’11 settembre 2001? Come hai saputo delle Torri
di New York?». Da mesi in tutto il mondo non è raro sentirsi rivolgere queste
domande. Tutti si ricordano bene dov'erano e cosa stavano facendo mentre
crollavano le Twin Towers. Ma noi ricordiamo bene anche cosa facevamo in un'altra data,
molto più lontana nel tempo. Era il 10 ottobre 1963 e, il giorno prima, la
tragedia del Vajont aveva causato quasi duemila morti. Quella mattina le maestre
della scuola Montessori di Milano riunirono tutte le classi nella sala delle
recite e ci raccontarono di quella valanga d'acqua che era piovuta su Longarone
e altri paesi spazzando via tutto, anche la vita di molti bambini come noi. Non capimmo bene quello che era successo, ma forse ancora non
lo avevano capito neanche gli adulti e alla domanda: «Ma ce l'abbiamo anche noi
a Milano, una diga come quella del Vajont?» le "signorine" (così
chiamavamo le maestre) risposero di no e tutti noi bambini tirammo un sospiro di
sollievo. Ricordate il Vajont? Il Vajont della "strage di
Stato", così come lo hanno raccontato Marco Paolini - tre ore e mezza di
monologo trasmesse dalla Rai - e Renzo Martinelli nel più recente film con
tanto di effetti speciali? Probabilmente molti risponderanno di sì. Oggi si sa
che quella fu una strage annunciata e che chi ne aveva il potere e il dovere non
fece nulla per impedirla. Ma il Vajont che vogliamo raccontare non riguarda quello che
portò alla spaventosa notte di 39 anni fa: l'avidità, l'imperizia, la
criminale leggerezza con la quale vennero ignorati gli inequivocabili
avvertimenti lanciati per anni dalla natura violentata dagli uomini. Il Vajont
che vogliamo raccontare parte da quella notte di luna piena in cui la vita di
molti finì e quella di altri rimase sfregiata per sempre e continua fino ad
oggi, anno 2002. Questa è la storia, poco o per nulla nota, del dopo Vajont.
Che ne è stato di quei bambini che furono tirati fuori dal fango o di quei
poveri emigranti che tornarono dalla Germania per cercare i corpi dei familiari
trascinati via dall'acqua? Hanno avuto giustizia? Pochi si sono posti queste
domande, come purtroppo spesso accade: passata la tragedia, la nostra attenzione
scappa altrove e lascia le vittime sole a combattere per una giustizia che è
anche un prezioso patrimonio di tutta la collettività. 40 ANNI DI SOLITUDINE Non abbiamo mai sentito le loro voci. Molti di loro ancora
non vogliono parlare di tutto ciò che è legato a quella notte e di tutto
quello che li ha travolti dopo, impedendo di dimenticare. « Il dopo Vajont è stato ancora peggio della tragedia,
perfino più scandaloso e doloroso per tutti noi superstiti» si sfogano in
molti. La nostra storia può cominciare così: il dopo Vajont per i superstiti
è stato ancora peggio della tragedia. Ce ne accorgiamo la sera del 9 ottobre
2001. La proiezione dell'anteprima del film "Vajont" di Martinelli è
appena terminata. Sullo schermo - allestito in un suggestivo quanto inquietante
scenario: la frana ai piedi della diga - scorrono i titoli di coda. Spettatori,
giornalisti, abitanti del luogo, autorità, si arrampicano sulla traballante
rampa di scale per raggiungere il tendone nel quale si terrà la conferenza
stampa. Chicco Testa, in rappresentanza dell'Enel, saluta il regista, gli attori
presenti, si complimenta con loro per la ricostruzione fatta. Poi se ne va,
chiamato da altri impegni. Fa freddo e per riscaldare i presenti vengono offerti
té, caffè e vin brulé. Il tendone si riempie. Sul palco prende posto
l'équipe della produzione e qualche testimone della tragedia che ha trovato il
coraggio di esserci. Comincia la conferenza stampa. Qualche dato tecnico sugli
effetti speciali, qualche nota sui costi di produzione. Ma - interviene il
regista - la serata è dedicata a quelli che non ci sono più e ai loro cari che
portano ancora nell'anima profonde cicatrici mai rimarginate. Il risultato è
che si parla poco del film e niente del processo. Qui tutti danno per scontato
che i giornalisti presenti sappiano già bene come sono andate le cose. Ciò che
s'ignora è cos'è accaduto dopo, ai superstiti. Chi prende il microfono non
vorrebbe più lasciarlo. Alcune persone che hanno perso diversi parenti e sono
state liquidate con quattro soldi dallo Stato denunciano donazioni mai arrivate
a destinazione, finanziamenti miliardari piovuti (e che continuano a piovere) su
aziende non coinvolte nella tragedia, storie di bimbi rimasti orfani truffati
dai genitori adottivi a cui erano stati affidati con leggerezza dai giudici. I
superstiti denunciano che, grazie a cavilli legali, a 600 vittime non è stata
versata una lira di risarcimento. Qualcuno chiede, quasi piangendo, che si
faccia qualcosa per ritrovare i resti di un familiare o di un parente. Chiede
perché non si sia mai fatto nemmeno un tentativo per recuperarli. Altri ancora
parlano del disinfettante canceroso buttato a sacchi sui cadaveri e si domandano
se abbia qualcosa a che fare con le numerose morti per tumore avvenute dopo la
tragedia. Qualcuno ricorda le casseforti delle banche mai ritrovate da una ditta
a cui era stato dato il compito del recupero e le polizze assicurative e le
pensioni dei morti mai pagate agli eredi perché mancava la documentazione. Noi giornalisti rimaniamo a bocca aperta. Il Vajont non è,
dunque, la storia di un passato lontano: si trascina ancora oggi, tra carte
bollate, denunce, progetti di ristrutturazione urbana, complessi industriali che
nascono e muoiono con soldi che ancora riportano ai morti e alla distruzione di
allora. Il tutto nella totale indifferenza degli organi di informazione. «Sui superstiti sono state scritte solo bugie» dice
Carolina Teza. «Nessun giornalista è mai venuto da noi a farsi raccontare come
sono andate le cose in questi anni. Nessun giornalista ha vigilato affinché i
morti e i vivi avessero giustizia. Il silenzio ha fatto e fa comodo a molti,
tutti quelli che con il Vajont si sono arricchiti o hanno fatto carriera.
Peccato sia tutta gente che nemmeno abitava qui, tutta gente che non ha perso
niente. Perché abbiamo dovuto aspettare quarant'anni e un film perché la
stampa nazionale si rifacesse vedere da queste parti?» MONTANELLI NON CI CREDE Il 10 ottobre 1963 Longarone non esisteva più. Dove c'erano
case, chiese, scuole, negozi e bar, solo una grande spianata di fango e detriti.
E, sepolti sotto quei detriti, tutti i morti del Vajont. Sopra vagavano i
sopravvissuti in trance, cercando di riconoscere in una trave portante, una
pentola, un falcetto quello che restava della loro casa: la speranza era di
recuperare, scavando, qualche parente ancora in vita. Ma i più fortunati
trovarono solo corpi esanimi di padri, madri, fratelli e sorelle, zii e cugini.
Quella mattina, sulla spianata di Longarone, arrivarono anche i giornalisti e le
autorità. Arrivò lo Stato. «Chi non conosceva la zona non poteva avere la percezione
del disastro» racconta Bruno Ambrosi, allora inviato della Raia, «Io arrivai
in elicottero alle dieci del mattino in quella che a prima vista mi sembrava
solo una pietraia lungo il greto del Piave. C'era solo qualche casa
semidistrutta, poche tracce evidenti di quello che era appena successo. Una casa
sventrata fa un effetto immediato, ma lì non c'era più nulla in piedi. Mi misi
a camminare in quella spianata. A un certo punto vidi una specie di triangolo
che spuntava dal fango. Mi avvicinai e così mi accorsi che era il braccio di un
bimbo di cinque/sei anni. Il piccolo era morto. Cominciai a vagare in trance con
quel corpicino in braccio finché qualcuno non mi disse di metterlo dove erano
accatastati altri corpi: decine, centinaia. Allora ebbi la dimensione della
catastrofe. Rimasi in questa zona per ventotto giorni partecipando alle
operazioni di recupero dei cadaveri. Dopo qualche giorno cominciarono ad
apparire i primi manifesti che denunciavano le responsabilità dello Stato.
Quando le autorità si fecero vedere, qualcuno, urlando di rabbia e
disperazione, cominciò a lanciare degli insulti. I giornali dell'epoca
scrissero che era vergognoso speculare sui morti. Allora la realtà da
raccontare era questa: era successa una disgrazia naturale e chiunque volesse
attribuire delle colpe o responsabilità era uno sporco sciacallo». Agli inizi degli anni Sessanta lo Stato era al di sopra di
ogni sospetto e qualsiasi organo d'informazione che osasse avanzare dei dubbi
sul suo operato veniva etichettato come sovversivo. Così era stata definita
Tina Merlin, inviata dell'«Unità», che da anni denunciava i rischi della
costruzione di quella diga e le vergognose speculazioni che c'erano dietro a
quel progetto. I maggiori giornalisti italiani esclusero invece una
responsabilità dello Stato e delle aziende pubbliche. Molti non rinnegarono
nemmeno in seguito quella presa di posizione. Due anni fa, l’11 aprile 1999, rispondendo a un lettore che
denunciava come la Sade-Enel sapesse benissimo che la montagna stava per
crollare - tant'è vero che aveva fatto costruire un canale di comunicazione tra
i due estremi della valle proprio nel caso si verificasse quel frangente - Indro
Montanelli scrisse sul «Corriere della Sera»: «La fermo e mi fermo - una
volta per tutte - qui, per farle una confessione. Si, è vero mi costa
moltissimo, è anzi al di sopra dei miei mezzi immaginativi l'idea che
un'impresa pubblica o privata che fosse volle costruire una diga sapendo che la
montagna vi sarebbe precipitata sopra. Cosa vuole che le dica? Sarà colpa della
povertà della mia fantasia. Ma non riesco a crederci». La posizione di Montanelli, del resto, fu chiara fin dai
primi giorni: «Nella vita delle nazioni ci sono sempre state tragedie di ogni
genere, carestie, pestilenze, terremoti che vanno affrontate con coraggio e
senza creare odi interni» («Domenica del Corriere», novembre 1963). Per lui
la disgrazia rimase sempre una catastrofe naturale. "MISTERIOSO DISEGNO D'AMORE" Ma Montanelli non fu l'unico. Tutte le grandi penne del tempo
si mobilitarono per escludere responsabilità dello Stato. L’11 ottobre 1963
Dino Buzzati scrisse, sempre sul «Corriere della Sera», un articolo dal titolo
"Natura crudele". «Come ricostruire ciò che è accaduto, la frana,
lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel
lago? E l'onda spaventosa, da catáclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi
come... Sì, come un immenso dorso di balena ha scavalcato il bordo della diga,
è precipitata a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di
schiuma, verso i paesi addormentati. E il tonfo nel lago, il tremito della
terra, lo scroscio dell'acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro
di boati, stridori, rimbombi, cigolii, urla, gemiti, rantoli, invocazioni,
pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l'irreparabile
è compiuto, il silenzio stesso che c'è nelle tombe? Un sasso è caduto in un
bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo
che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una
montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non
potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può,
come nel caso del Gleno (il 1 dicembre 1923, la diga, costruita nella Valle di
Scalve, in provincia di Bergamo, crollò uccidendo circa 500 persone, nda.),
dare della bestia a chi l'ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte,
testimonianza della tenacia, del talento e del coraggio umano. La diga del
Vajont era un capolavoro perfino dal lato estetico... Tutto era stato calcolato
alla perfezione e quindi realizzato da maestri... Ma non è bastato. Ancora una
volta la fantasia della natura è stata più grande e asciutta che la fantasia
della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata
attaccando il vincitore alle spalle.. . ». Sempre 1'11 ottobre, sulle pagine del «Giorno», Giorgio
Bocca scrisse: «Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c'erano, oggi sono
terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe
dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani:
tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma
indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!». Qualche giorno dopo, il 19 ottobre, la Democrazia Cristiana
fece affiggere in tutta Italia un manifesto su cui, a caratteri cubitali,
compariva la scritta «sciacalli», e diffuse comunicati di questo tono: «Sulla
sciagura del Vajont il Partito Comunista ha imbastito una spregevole
speculazione politica [...] i comunisti inviano "agit-prop" per
attizzare sotto le macerie il fuoco dell'odio e della sovversione. Additiamo al
disprezzo del paese gli sciacalli comunisti». Il settimanale della De «La
Discussione» scriveva: «Perché sono morti? Quella notte nella valle del
Vajont si è compiuto un misterioso disegno d'amore». Come dire: quello che è
successo è stata la volontà di Dio. Fatevi il segno della croce e non
pensateci più. Ma se i maggiori quotidiani italiani avevano ignorato gli
articoli di Tina Merlin prima della tragedia e continuarono a ignorare i
successivi, i giornali esteri («The New York Times», «The Times», «Le
Monde», «The Herald Tribune») mandarono esperti e inviati per capire la
meccanica della disgrazia, quali avvertimenti erano stati volutamente ignorati,
quali leggerezze erano state commesse. DI NOTTE, AL CIMITERO Nei mesi successivi, i giornali italiani raccontarono le
drammatiche storie dei sopravvissuti, lo strazio per le perdite subite. Ma, come
cominciarono a delinearsi responsabilità dirette dello Stato e degli enti
pubblici, l'atteggiamento nei loro riguardi si modificò. Le vittime diventarono
relitti umani, sfaccendati che si erano arricchiti con i soldi della
solidarietà. Si fece di tutto per togliere loro dignità, per convincerli che
niente gli era dovuto perché nessuno poteva essere ritenuto responsabile di una
catastrofe naturale. Un po' alla volta si fece loro attorno il vuoto. Furono
isolati, abbandonati al loro enorme dolore. Nel libro Le ombre di Erto e Casso (Giordano Editore Milano
1967) Armando Gervasoni descrive così i superstiti: «Così girano di paese in
paese, di bar in bar, con le macchine fiammanti, quasi tutti uomini ma anche
qualche donna. Automobili comprate con i soldi dell'assistenza. Quando caffè,
bar, osterie chiudono, si riversano sulla pietraia scura abbandonata, in quella
colossale scena shakespiriana dove le croci, le porcellane ovali da cimitero, i
capitelli, i cartelli sono al posto delle case, delle persone, degli uffici, dei
negozi. Escono che sono spiritati la più gran parte per l'alcol ingurgitato, e
gridano, schiamazzano, non di rado fanno lite. Poi tutto sprofonda nel silenzio.
"C'è pochissimo lavoro - mi confida il taxista. - Oramai i superstiti la
macchina ce l'hanno quasi tutti"... Ogni bel ballo stanca. I superstiti
stancano. Finisce che hanno torto anche quando hanno ragione. Bevono e non
lavorano». Bevono e non lavorano, si sono arricchiti con il soldi della
solidarietà. Così si scriveva dei superstiti nel 1967, quattro anni dopo la
tragedia. «È vergognoso» racconta Carolina Teza. «Mio marito
Vincenzo aveva ventun'anni ed era rimasto solo. Aveva perso sette familiari
nella disgrazia. Per mesi cercò i loro corpi lungo il fiume e li ritrovò ad
uno ad uno. Per tutto quel tempo dormì in un sottoscala che gli misero a
disposizione due signorine della frazione di Fortogna. Di notte andava al
cimitero per chiamare ad alta voce la madre pregandola di venirlo a prendere.
Dopo aver dato sepoltura ai suoi cari, nel marzo 1964 è partito per la Germania
per andare a lavorare. Nei primi mesi successivi al disastro ha avuto soltanto
un piccolo sussidio mensile, sufficiente appena per coprire le prime
necessità». La storia di Vincenzo è del tutto simile a quella degli
altri superstiti. QUELL'INTERVISTA NON S'HA DA FARE Ma quanto venne davvero dato ai superstiti per tirare avanti
dopo la tragedia? Abbiamo consultato l'elenco dei sussidi erogati dalla
provincia di Belluno dal 21 ottobre 1963 al 31 dicembre 1964 (sotto forma di
sussidio giornaliero, assegno perequativo e sussidio per fitto e riscaldamento).
Mediamente a ogni superstite vennero assegnati circa 500mila lire dell'epoca
(per avere il valore approssimativo attuale si deve moltiplicare per quindici),
ma in molti casi le vittime ebbero soltanto 12mila lire. Solo raramente qualcuno
prese un milione. A Longarone i superstiti che beneficiarono di questi sussidi
furono 264, a Igne 91, a Fortogna 150, a Soffranco 13, a Provagna 62 e a Dogna
52. La maggior parte di loro aveva perso tutti i cari e tutto quello che
possedeva. Molti rimasero a Longarone giusto il tempo per recuperare i corpi di
familiari e parenti e poi emigrarono. «Il secondo o il terzo giorno dopo la tragedia - racconta
ancora Bruno Ambrosi - arrivò sulla spianata di Longarone Giovanni Leone,
allora Presidente del Consiglio. Ad aspettarlo con me c'era il vice sindaco
Terenzio Arduini che aveva perso il figlio e i genitori. Disperato gli disse:
"Presidente, chiediamo giustizia". E il Presidente rispose
stringendogli la mano: "E giustizia avrete". Sennonchè cadde il
governo e dopo poco Leone divenne capo del collegio degli avvocati della
Sade-Enel, la controparte. Mi resi subito conto che per noi giornalisti il
Vajont era un tasto delicato da toccare. Erano passati pochi giorni dalla
tragedia. Un mio excollega Rai, Massimo Rendina, era diventato capo ufficio
stampa dell'Enel, che aveva rilevato la Sade. Mi telefonò e mi disse:
"Caro Ambrosi, meno male che ci sei tu, che ti conosco, a occuparti del
Vajont. Mi raccomando... Sai bene che noi non c'entriamo niente". Avevo
ancora negli occhi i corpi appena recuperati. Mi infastidì molto il suo
cinismo. Si preoccupava degli aspetti giuridici senza dire una parola sul dramma
umano. Mi occupai ancora di Vajont. Anni dopo feci un servizio per il
settimanale Rai "AZ, un fatto come e perché" insieme al collega
Giancarlo Santalmassi. Lui venne mandato a seguire il processo che, per
legittima suspicione, era stato spostato all'Aquila. Io andai a Belluno a
intervistare il pubblico ministero Mario Fabbri che si stava occupando delle
indagini. A quei tempi intervistare un magistrato era una cosa rara. Arrivai
nell'ufficio di Fabbri al Palazzo di Giustizia di Belluno. Il mio operatore
accese le sue potenti lampade per illuminare l'ambiente nel modo appropriato.
Stavo cominciando a fare le mie domande quando entrò, senza bussare, una
persona, che con fare arrogante disse a Fabbri di seguirlo. II magistrato
ritornò dopo qualche minuto con l'aria sconvolta. "Chi era quello?"
gli chiesi. "È Fabio Mandarino, procuratore capo di Belluno. Ha detto che
mi denuncerà per sottrazione di beni d'ufficio". "Ma perché?"
domandai incredulo. "Perché vi ho permesso di accendere le lampade e di
sottrarre così abusivamente la corrente al Palazzo di Giustizia. Mi dispiace,
ma l'intervista non si può fare". Gli proposi di vedersi a casa sua, ma mi
disse che non poteva ricevere a casa sua "persone che hanno interesse nella
causa". Suggerii di andare sulla diga, ma neanche questa alternativa andava
bene in quanto era "materia del processo". Ci accordammo perché
venisse nel nostro hotel. Uscendo dal tribunale il mio operatore e io ci
accorgemmo di essere seguiti dai carabinieri. Quando Fabbri arrivò in albergo
mettemmo dei fogli di carta neri alle finestre per non far vedere ai carabinieri
che stavamo filmando. Così feci la mia intervista, che mi sembrò del tutto
innocua, anche se piena di informazioni. Ero molto contento del mio lavoro.
Santalmassi e io montammo il servizio di circa un'ora e lo facemmo vedere al
nostro direttore Willy De Luca che lo guardò con attenzione e poi disse:
"Splendido, la più bella cosa che abbia mai visto da che sono direttore.
Peccato che non andrà mai in onda". Lo guardammo sbigottiti. "Perché
no?" chiedemmo. "È molto semplice. Da questo pezzo viene fuori
un'immagine negativa della magistratura. Il procuratore di Roma, Spagnolo, ha
fior di inchieste sulla Rai nel suo cassetto. Se non mandiamo questo servizio,
tiene chiuso il cassetto. Se va in onda, apre il cassetto. Chiaro?". Fu
chiarissimo. La nostra inchiesta fu bloccata per anni prima di venire mostrata
parzialmente al pubblico televisivo, quando ormai il processo era già in una
fase avanzata». I BUONI E I CATTIVI Negli anni successivi alla tragedia, dei superstiti si
offrirono due immagini pubbliche: quella dei "buoni", pronti a darsi
subito da fare, a rimboccarsi le maniche, a occuparsi esclusivamente delle
rivendicazioni economiche. La maggior parte di loro erano sfollati più che
superstiti, non avevano perso cari nella tragedia e le loro case, rimaste in
piedi, erano state però giudicate inagibili in quanto situate nelle aree
evacuate per motivi di una tardiva quanto ormai inutile sicurezza. C'erano poi i
superstiti "cattivi" che reclamavano giustizia per i loro morti.
Vennero descritti come ubriaconi e sfaccendati, ma erano in realtà più
disperati degli altri, meno propensi a concedere interviste, perfino a parlare
con altri familiari del loro dolore. Non avevano più nulla, nemmeno per
ricordare: l'onda della morte si era portata via tutto. Difficile per queste
persone guardare al futuro in modo positivo e prendere la disgrazia come
un'opportunità per ricominciare con una nuova e più florida attività. All'interno di questo scenario si fece avanti lo Stato, che
arrivò nelle famiglie dei superstiti "cattivi", molti dei quali
ancora sotto sedativi, per far firmare transazioni con le quali venivano
liquidati, con risarcimenti vergognosi, i loro morti. Una volta per tutte, senza
possibilità di ulteriori rivendicazioni future. I "cattivi" firmarono
quasi tutti.
Lucia Vastano