Prima
della frana, i colpevoli silenzi e la criminale avidità della società
elettrica. Dopo, il comportamento dello stato nei confronti dei superstiti
e la corsa all'affare
Vajont,
due volte tragedia
C'è
un Vajont che mai nessuno ha raccontato. Non riguarda la spaventosa notte
di 39 anni fa. Non riguarda nemmeno l'avidità umana, l'imperizia, la
criminale leggerezza con la quale vennero ignorati gli inequivocabili
avvertimenti lanciati per anni dalla natura violentata dagli uomini. E' il
Vajont del dopo. Dopo che dal monte Toc, corroso alla base da un progetto
che soltanto in nome del buonsenso non si sarebbe mai dovuto realizzare,
si staccò la gigantesca frana. Dopo che la maledetta onda si abbatté su
Longarone e le sue frazioni, su Castellavezzo, su Erto e Casso, rubando la
vita a 1.917 esseri umani. Dopo che tutto quello che poteva e doveva
essere fatto per evitare la "strage di stato" non fu fatto. E'
la storia di come lo stato si comportò con i superstiti, quelli che per
un imponderabile gioco del destino, non erano a casa con i propri
familiari, spazzati via dall'acqua. E' la storia di come lo stato riuscì
a fare un business anche della disgrazia, di come in nome del Vajont venne
pianificato lo sviluppo industriale di tutto il Triveneto, di come si
fecero leggi per elargire miliardi (dell'epoca e attuali) ad aziende e
privati che non avevano perso nulla nella disgrazia. Di come invece si
trovarono cavilli legali per liquidare con quattro soldi chi aveva perso
tutto, casa, affetti e persino ricordi. E'
la storia di come gli stessi meccanismi che avevano portato alla tragedia
si riproposero nel dopo, umiliando i deboli e le vittime, favorendo chi,
non avendo morti da piangere, poteva farsi avanti per reclamare la sua
fetta di torta. Un
caso esemplare
Il
Vajont del dopo è una storia italiana esemplare che, non a caso, è stata
ignorata dai media. «Il dopo Vajont è stato ancora peggio della
tragedia, persino più scandaloso e doloroso per tutti noi superstiti» si
sfogano in molti. Furono
proprio i media a dare l'avvio al secondo capitolo del Vajont.
Cominciarono subito, fin dalla mattina dopo l'apocalisse, il 10 ottobre
1963 quando l'Italia si svegliò leggendo sui quotidiani la notizia di
quello che era successo da poche ore. Il ruolo della stampa italiana fu
fondamentale. Mentre sui giornali esteri (New York Times, The Times, Le
Monde ecc.), molto attenti a raccontare quello che era davvero successo,
si dava largo spazio all'inchiesta condotta dalla giornalista dell'Unità
Tina Merlin, in Italia si mobilitarono le più prestigiose firme del
giornalismo (tra gli altri Montanelli) per fugare ogni dubbio: quello che
era successo era una disgrazia naturale per la quale l'uomo non aveva
alcuna responsabilità. I superstiti che reclamavano giustizia erano
fomentati da «sciacalli comunisti» che speculavano sul dolore e sui
morti. Chi accusava la Sade-Enel, chi faceva nomi e cognomi era da «additare
al pubblico disprezzo». C'era solo una lezione da imparare da quella
notte. Il settimanale della Dc, La Discussione, lo scrisse chiaro: «Perché
sono morti? Quella notte nella valle del Vajont si è compiuto un
misterioso disegno d'amore». Come dire: quello che è successo è stato
volontà di Dio. Fatevi il segno della croce e non pensateci più. Aria
di business
Ma
intanto che i superstiti, sempre più spesso descritti come ubriaconi e
sfaccendati, cominciarono a preferire il silenzio alla denuncia, c'era chi
nel Vajont vide un'opportunità da non perdere. Giovanni Leone, allora
presidente del Consiglio, arrivò sul luogo della tragedia qualche giorno
dopo. «Ad aspettarlo con me c'era il vice sindaco di Longarone, Terenzio
Arduini che aveva perso il figlio e i genitori», racconta Bruno Ambrosi,
giornalista della Rai. «Disperato gli disse: "Presidente, chiediamo
giustizia". E Leone rispose, dopo avergli preso la mano: "E
giustizia avrete". Peccato che cadde il governo e poco dopo Leone
divenne capo del collegio degli avvocati della Sade-Enel, la controparte».
C'era aria di business e Leone colse la palla al balzo. Si dette un gran
da fare, ma ce la fece. Trovò nel codice cavilli e codicilli che
permisero di non risarcire i parenti sopravvissuti di circa 600 morti (in
base all'art.4 del codice civile sulla commorienza). Nel
1968 e 1969 i superstiti vennero contattati dagli avvocati per i
risarcimenti. «A voi superstiti non spetta niente, dal momento che non ci
sono responsabilità. Per cui vi conviene accettare quello che ora vi
viene offerto, altrimenti non avrete niente». Quello che offrivano erano
davvero quattro soldi: un milione e mezzo per i genitori morti (se il
figlio era minorenne, altrimenti un milione), ottocento mila lire per i
fratelli conviventi, seicento mila per quelli non conviventi. In base al
cavillo trovato da Leone nulla era dovuto per nipoti, nonni, zii
scomparsi, anche se conviventi. Ci
fu chi per sette parenti, la casa rasa al suolo, ottenne 6 milioni di
allora, equivalenti a circa 45.000 euro del 2002. Quasi
tutti i superstiti firmarono la transazione. Gli avvocati ottennero per
ogni liberatoria ottenuta un compenso di 5 milioni di allora, spesso molto
più di ciò che venne dato ai parenti delle vittime. C'era
un altro lavoro molto interessante per avvocati, notai, commercialisti.
Riguardava la vendita delle licenze. Fu questo il business che "mise
in moto" l'economia di tutto il Triveneto. La cosiddetta "legge
Vajont" (n. 357/1964) stabiliva che ogni cittadino dei comuni
disastrati che possedeva una licenza (sia commerciale, artigianale che
industriale) al tempo della tragedia aveva diritto ad un contributo del 20
per cento a fondo perduto per riavviare l'attività, a un mutuo dell'80
per cento a tasso agevolato della durata di quindici anni (in tempi in cui
l'inflazione poteva raggiungere anche il 15 per cento), oltre
all'esenzione dal pagamento delle tasse per dieci anni. Il principio non
era sbagliato. A chi aveva perso la sua attività veniva di fatto
riconosciuto il diritto ad un risarcimento. Ma la legge non era certo
fatta per aiutare i poveracci che "prima" vendevano fili e aghi,
gelati. La legge infatti si spingeva oltre e stabiliva che chi non poteva
o non voleva riprendere la vecchia attività aveva diritto di vendere la
licenza ad altri e che questi potevano beneficiare degli stessi diritti a
patto che l'attività venisse riproposta all'interno di un certo
comprensorio che però finiva per coincidere con tutto il Triveneto. Ecco
dunque quello che successe. Molti solerti intermediari si presentarono ai
proprietari delle licenze e offrirono loro quattro soldi (raramente più
di 50.000 lire) per acquistarle. Anche in questo caso gli intermediari
ottennero in premio 5 milioni per ogni licenza acquisita. E' evidente che
non avevano nessun interesse di far capire ai legittimi proprietari a cosa
rinunciavano firmando quel pezzo di carta. Così
successe che per una licenza pagata dieci mila lire, aziende ottennero
finanziamenti miliardari per decenni. La legge prevedeva infatti continui
rifinanziamenti alle aziende del comprensorio proprietarie delle licenze.
L'elenco completo delle attività rilevate e poi riattivate è pubblico.
Eccone alcuni esempi: Giacomo Solari, di Longarone, commerciante di
legname, ha venduto la sua licenza alla ditta "Industrie
meccaniche" di Alano di Piave, una fonderia, che ottiene per la
"riattivazione" 1.125.208.609 di allora. Fedele Olivato,
calzolaio di Longarone, vende a "La tegola inglese" (aperta per
l'occasione nel 1966) di Trichina che fa tegole in cemento e ottiene oltre
duecento milioni. Ovviamente anche le più prestigiose aziende del Veneto
non perdono l'occasione di farsi avanti. Gli eredi di Mario Celso,
calzolaio di Longarone perito nella tragedia, vendono la sua licenza alla
"Zanussi Mel", fabbrica di compressori del gruppo Zanussi che
ottiene tre miliardi per la riattivazione. La
legge lasciava ampio spazio a queste "speculazioni" del tutto
lecite, coperte con i soldi delle finanziarie. Nel formulare la legge
l'intenzione era stata questa: trasformare l'evento catastrofico in un
evento positivo per l'imprenditoria delle regioni. Il Vajont fu una vera
fortuna per tutto il bacino industriale del comprensorio. Le emergenze, i
bisogni della gente, psicologici, economici, culturali, la fame di
giustizia, furono considerate soltanto un elemento di disturbo perché
distoglievano energie economiche, finanziarie nonché legali dal vero
obbiettivo finale dell'intervento: lo sviluppo industriale di quella fetta
d'Italia del Nord che era rimasta un po' indietro. «Mentre
nelle zone devastate ancora mancavano il pane e il latte», scrisse nella
sua interrogazione parlamentare Davide Lajolo, «il prefetto si occupava
delle visite dei membri del governo e, mentre i consiglieri comunali
superstiti di tutti i partiti chiedevano, con spiegabile emozione ed
energia, pronta assistenza alla popolazione e l'esemplare punizione dei
responsabili, osava dire essere quella "una ignobile gazzarra"».
Truffa
e corruzione
La
legge permetteva dunque lucrosi affari. Ma questo non bastava e per
partecipare al "banchetto" vi fu chi fece carte false. Vi furono
giudici, amministratori comunali, geometri corrotti per ottenere
finanziamenti anche oltre le "regalie" previste dalla legge. Nel
1980 si celebrò a Pordenone un processo contro 14 persone imputate di
corruzione, falso e truffa. Tra di loro anche Aldo Romanet, un
commercialista pordenonese, uno degli ultimi ad aver visto Calvi prima del
suo espatrio. Nella
storia del dopo Vajont non mancano le storie di sparizione dei soldi,
miliardi dell'epoca, raccolti grazie alla solidarietà degli italiani e di
donatori di tutto il mondo. A fronte di raccolte arrivate a buon fine e
ampiamente e meticolosamente registrate (per esempio quelle del Corriere
della Sera), ve ne sono altre di cui non si è mai saputo nulla. Nessun
superstite ha mai preso una lira dei miliardi raccolti per loro dalla Rai
(627 milioni di allora nella sola prima settimana, equivalenti ad oltre 14
milioni di euro di adesso). Un
altro business fu per molti anche quello dei bambini rimasti orfani. Con
sospetta facilità vennero spesso affidati in tutela a persone il cui
unico scopo fu quello di derubarli dai risarcimenti a cui avevano diritto
per la perdita dei genitori e delle case. Ci sono poi le storie dei morti
mai recuperati e mai nemmeno cercati dalle diverse amministrazioni
comunali che si sono succedute in questi quasi quarant'anni. A fronte dei
risarcimenti miliardari ottenuti (l'ultimo di 77 miliardi al comune di
Longarone del 2000) nessuno si è mai dato da fare per esaudire il
desiderio dei superstiti di provare a recuperare le 451 vittime mai
trovate. Non si è mai seriamente scavato sul greto del torrente Maè dove
dovrebbero trovarsi i morti di Longarone o a monte della diga dove
dovrebbero essere finite le 158 vittime di Erto Casso (e dove con un
cattivo gusto e un disprezzo per la memoria è stato da pochi mesi
inaugurato un salumificio). Chi
ha perso parenti, amici, portati via dall'onda di morte quella notte di
luna piena del 9 ottobre 1963 ancora aspetta giustizia. Ma una giustizia
che arriva troppo tardi non può mai essere giusta. L'unica cosa che ora
si può fare per loro è almeno ascoltare le loro storie. E far sì che
con i soldi appena stanziati e piovuti sui comuni interessati si soddisfi
in qualche modo anche un loro desiderio: ridare dignità ai morti. Lucia
Vastano Longarone, 9 ottobre 2002 da
" Liberazione" |